Istituito dal Consiglio dei Ministri, il Dantedì è dal 2020 la giornata nazionale dedicata a Durante di Alighiero degli Alighieri, noto in tutto il mondo come Dante Alighieri. La data scelta per questa celebrazione è il 25 Marzo: giorno in cui, secondo gli studiosi, Dante iniziò il suo viaggio nell’aldilà narrato nelle tre Cantiche che compongono la Divina Commedia.
Dante Alighieri non ha bisogno di presentazioni e il suo contributo alla cultura italiana, e in parte anche mondiale, è indiscusso: il suo viaggio nell’aldilà ha ispirato, nell’arco di secoli, artisti, scrittori e anche registi; e la sua rappresentazione dei regni ultraterreni continua tutt’ora ad essere presa come modello anche nelle rappresentazioni contemporanee dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso.
Tra le pagine della Divina Commedia, infatti, si trova ben più di un semplice racconto, di un affresco della cultura medievale e delle dottrine teologiche e filosofiche che si discutevano nelle università e nelle corti.
Politica, storia, mitologia, astronomia, ma anche tecniche agricole e navali vengono descritte facendo sì che la Commedia diventi, al pari dell’Iliade e dell’Odissea di Omero, una sorta di enciclopedia trecentesca in cui, per esempio, si fa cenno a pratiche come quella del maggese (la rotazione delle colture che prevede la messa “a riposo” di un terreno per l’anno successivo) o alle operazioni di calafataggio, di impermeabilizzazione, condotte “nell’Arzanà de’ Viniziani” con la “tenace pece” (Inferno: C. XXI, v. 7-8).
La Divina Commedia è un testo che parla di Dio, parlando agli uomini: una sinossi di teologia medievale che, tuttavia, era comprensibile tanto ai contemporanei di Dante quanto ai lettori dei nostri giorni che, tra i canti, incontrano personaggi che palpitano di vita ed eroismo, tanto meschini e vili, alcuni, quanto puri e nobili altri; ma tutti incredibilmente umani e per questo vicini al pubblico di ogni epoca e luogo.
Tuttavia, la Divina Commedia non si può ridurre ad un mero almanacco trecentesco: a Dante va il merito di aver vergato uno dei testi che ha ufficializzato il volgare fiorentino contribuendo alla nascita e al progressivo imporsi di quella che sarebbe diventata l’italiano.
Con Dante, Petrarca e Boccaccio (le Tre Corone fiorentine) nasce la nostra lingua: che non è fatta solo da grammatica e vocaboli, ma si avvale di modi di dire che, per la prima volta, vengono messi su carta divenendo parte attiva di una nuova cultura ed una nuova Italia.
È così che espressioni, come “fa tremare le vene e i polsi” (Inferno: C.I, v. 90) approdano nell’italiano corrente riuscendo, oggi come allora, a descrivere sentimenti ed emozioni universali come la paura, se non addirittura il terrore, davanti a situazioni o cose raccapriccianti o che paiono invincibili. Modi di dire come “stare freschi”, “cosa fatta capo ha”, “non mi tange”, parole come “merda” o il tipicamente toscano “babbo”, squisitamente dialettali nella loro spontaneità, superano il tempo e lo spazio e fuggono dalla carta tornando al popolo che li ha coniati e che continua ad usarli.
Confrontando la Divina Commedia con la lingua di tutti i giorni si scopre l’aspetto giocoso, quasi pop, di Dante e della sua opera.
Non esiste studente al mondo che non sia stato, almeno una volta nel corso della sua carriera scolastica, apostrofato dal proprio professore con le parole “fatti non foste a vivere come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza.” (Inferno: C.XXVI,v.119-20). E che dire della locuzione “Galeotto fu…” (Inferno: C. V, v. 37) che è comunemente usata per indicare qualcosa che, per quanto spiacevole, ci ha fatto cadere in tentazione o prendere una libertà in più.
Dante non è solamente un coniatore di citazioni e, come l’inglese William Tyndale e come qualunque letterato che si affacci sulle potenzialità di una nuova lingua, egli gioca ed inventa ritagliando parole da altre parole o creandone di nuove quando il vocabolario corrente manca di quel termine atto a descrivere azioni, emozioni o atteggiamenti.
Latinismi come “quisquilia” o francesismi come “gabbare”, dal francese antico “gaber”(=”scherzo”), scivolano via dalle pagine garantendo la sopravvivenza di parole che, altrimenti, sarebbero oggi estinte. Non tutti i neologismi di Dante sono, purtroppo, giunti fino a noi e, sebbene siano molti le frasi e le espressioni per cui il Sommo Poeta è ricordato, ci sono alcuni verbi che, pur suonando strani se non addirittura buffi, sono forse la testimonianza più grande dell’estro e della conoscenza che Dante aveva della lingua e della linguistica. Espressioni come “indracarsi” (Inferno: C.XVI, v. 115), con l’accezione di divenire furioso come un drago, “infuturarsi” (Inferno: C. XVII, v. 98), estendersi al futuro, o “imparadisare” (Inferno: C. XXVIII, v.3), qualcosa che ti fa sentire “in paradiso”, colpiscono per la loro schiettezza e l’espressività con cui riescono a veicolare il messaggio di Dante.
Fiumi di inchiostro sono stati versati e, tutt’ora, le opere di Dante Alighieri continuano ad attirare l’attenzione di linguisti e storici e continuano a regalare, anche a distanza di secoli, sorprese e ad essere oggetto di studio.
Una menzione va fatta all’Accademia della Crusca (il cui contributo è stato fondamentale per questa stesura) che, in occasione del 700° anniversario dalla morte di Dante Alighieri, ha deciso di pubblicare ogni giorno una parola “dantesca”: neologismi o espressioni dialettali entrate, in maniera più o meno consapevole, nella lingua di tutti i giorni.
*Jo

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