I tornanti sembrano non finire più, mentre l’autobus si arrampica sui fianchi brulli dell’Atlante. Marrakech, la città rossa, con le viuzze della kasba invase dai prodotti delle botteghe, le fiumane di turisti sprovveduti, gli incantatori di serpenti e le tatuatrici di henné sulla piazza Jamaa el Fna, invasa al tramonto dai fumi delle bancarelle di carne e verdure grigliate, è ormai alle mie spalle. Villaggetti riarsi, gialli di fango e sabbia, si affacciano di tanto in tanto sulla linea nera dell’asfalto che corre imperterrita verso il nulla. Case piatte che sembrano terminate a metà, con i pilastri che spuntano mozzi dai tetti a terrazza. Venditori di quarzi e fossili, la merce strappata alla terra in bella mostra sulle bancarelle, colonizzano ogni sporadica piazzola di sosta lungo il percorso.
La tentazione di cedere al sonno e riaprire gli occhi una volta giunto a destinazione è forte, ma devo e voglio resistere. Voglio riempirmi lo sguardo di questo panorama brullo e sconosciuto, che non ha nulla da invidiare agli scenari del Far West americano, e non mi meraviglierei troppo se vedessi spuntare all’improvviso un carica di Sioux da dietro un crinale.
Più di dieci ore, tanto dura il tragitto, e procedendo le dune vanno via via sostituendosi ai tavolati di roccia. L’oscurità incombe, e guardando fuori dal finestrino mi accorgo che il deserto ha preso vita. Incalzate dal vento, spire granulose danzano nel crepuscolo, avvolgendosi in sinuosi arabeschi e picchiettando sui vetri. Gli ultimi bagliori del tramonto affondano oltre l’orizzonte, e solo la luce dei fari rimane a rischiarare la via, che si sfalda tra le ondate rossastre.
Ormai mi è chiaro che siamo in mezzo a una tempesta di sabbia, e proprio la sera del mio arrivo! La mia solita fortuna… Aguzzo la vista per scorgere il luogo in cui mi trovo, e dall’oscurità informe vedo emergere strutture granitiche sfumate nel turbine vermiglio. Le esili polle di luce dei lampioni filtrano attraverso la nube di granelli, lasciando intuire che ci troviamo in un centro abitato.
La velocità diminuisce e poi ci fermiamo del tutto, accompagnati dal sospiro di sollievo delle sospensioni.
La voce dell’autista all’altoparlante avvisa che finalmente siamo arrivati all’ultima fermata: M’Hamid El Ghizlane, l’avamposto estremo della civiltà prima del mare di sabbia che si estende fino al capo opposto del continente, tagliandolo da est a ovest. Qui la strada finisce e inizia il deserto.
Scendo esitante, inforcando gli occhiali da sole per proteggermi dalle sferzate della sabbia, che mi feriscono le gambe nude con l’effetto di mille spilli sulla pelle, e caricatomi lo zaino sulle spalle mi guardo attorno alla ricerca della mia guida. Mi si fa incontro un uomo, con il volto intabarrato nella sua tagelmust che lascia scoperti solo gli occhi. Si presenta come Ahmed, e senza perdersi in troppi convenevoli mi fa cenno di salire su un vecchio motorino parcheggiato lì accanto. Salgo in sella, e afferratomi ad Ahmed partiamo alla volta di quella che sarà la mia casa per i prossimi dieci giorni.
Ci lasciamo le rassicuranti luci dell’abitato alle spalle, immergendoci nella notte. Due linee di sassi bianchi, lasciati da un Pollicino berbero, sono l’unico suggerimento per individuare il tracciato. Ogni sobbalzo è un tuffo al cuore, con l’enorme zaino che mi traballa sulla schiena e la consapevolezza che se dovessi cadere la mia avventura qui finirebbe prima ancora di iniziare. I mille metri che separano la cittadina dal bivacco sono una traversata interminabile nella Geenna buia e desolata, con il deserto che ci aggredisce e cerca di seppellirci sotto la sua furia.
Carcasse di cani e dromedari sono disseminati nella terra di nessuno che stiamo attraversando, ossa bianche consumate dal sole che occhieggiano tra le dune, illuminate dal fanale del motorino. Terribili memento mori ad ammonire che il deserto non perdona, e la bellezza può essere mortale.
Un lumicino solitario tremola in lontananza, un faro sperduto nella tempesta. La motoretta curva, seguendo il percorso sconnesso, e si dirige in quella direzione. Deglutisco a labbra serrate, sperando che non manchi molto.
Finalmente ci fermiamo. Tra le tenebre fluttuanti individuo un pugno di bassi edifici squadrati, tirati su con mattoni di fango e sabbia e sparpagliati a casaccio attorno a uno spiazzo centrale. La tenue striscia di luci della città in lontananza è nascosta dalla fitta cortina mulinante.
Lottando contro le raffiche che minacciano di strapparmi dal suolo seguo Ahmed all’interno di una delle costruzioni più grandi.
Ci chiudiamo la tempesta oltre la soglia. Una strana calma regna tra le quattro pareti su cui affiorano steli di paglia mescolati al fango. Una patina di polvere rossa ricopre ogni cosa, stendendo un velo opaco sotto la luce giallognola che piove dalla lampada appesa al soffitto.
Seduti per terra, attorno a un basso tavolo, stanno i miei due nuovi compagni. Anche loro hanno attraversato mezzo mondo arrivando fin quaggiù, in quest’angolo remoto di deserto, per prestare le loro braccia alla costruzione di questo bivacco, in cambio di tre pasti caldi al giorno e un tetto per la notte. Ragazzi come me, affascinati dall’esperienza di vivere e lavorare fianco a fianco in questo luogo così diverso da quelli conosciuti finora, a contatto con una cultura e uno stile di vita tutti da scoprire.
La cena è già in tavola: tajine vegetariano, da mangiare rigorosamente con le mani come da abitudini locali, accompagnato da pane arabo e tè alla menta impregnato di zucchero. Quattro chiacchiere per conoscersi e scoprire cosa ha condotto le nostre strade a incrociarsi in questo fazzoletto sabbioso di mondo, e poi finalmente a letto, per far calare il sipario su questa giornata interminabile.
Il vento, che per tutta la notte ha imperversato contro la porta di ferro, percuotendola come un ospite indesiderato che respinto tenti di buttarla giù, si è finalmente placato, e quando apro l’uscio mi trovo catapultato in un mondo nuovo. Una sanguigna distesa ondulata che prosegue fin dove inizia il cielo, di un celeste tanto intenso che sembra uscito da una tavolozza del Pontormo. La bellezza di questo contrasto è così sconvolgente che mi lascia senza fiato.
Quello che ho di fronte è il vero deserto, quello che mostra la sua faccia più cruda e spietata, riassunto nella frase che Ahmed non si stanca mai di pronunciare: “Sahara no joke”. Siamo ben lontani dal “Coca Cola Desert”, come lo chiama lui con disprezzo, che sorge duecento chilometri più a nord, nell’oasi di Merzouga: cinque chilometri quadrati di sabbia invasi dai turisti, con cessi chimici e distributori automatici. Gli stranieri arrivano in frotte con gli autobus, si fotografano sulle dune e accanto ai cammelli e poi ripartono con il loro photobook da mostrare agli amici a casa. Qui invece di turistico c’è ben poco, come emergono a ricordarmelo le ossa spolpate che ho intravisto ieri sera venendo qui.
Il primo passo sulla sabbia fresca del mattino è una sensazione inconsueta, un varcare l’uscio che separa due mondi, l’inizio di un nuovo cammino.
Ahmed è già in piedi. Ha preparato la colazione e si è recato a M’Hamid a comprare il pane appena sfornato. Il tè alla menta ribolle nella teiera, dal cui beccuccio si srotola un sottile nastro di vapore, carico di profumi e suggestioni.
Appoggiato all’archetto che conduce alla cucina mi saluta con un cenno non appena mi scorge. Un sorriso fugace disegna sul suo volto scuro un reticolo di rughe che sembrano scavate dal vento. Poi torna a fissare il deserto.
– Magic Sahara. – Dice solennemente con il suo inglese essenziale, mentre lo sguardo si perde oltre l’orizzonte di dune. In esso riecheggia quello dei suoi padri, che per generazioni hanno affrontato le durezze del Sahara. Hanno combattuto contro il sole, vento e sabbia, riuscendo a ritagliarsi un loro spazio in queste terre che nessun altro riesce a domare. Romani, arabi, spagnoli, francesi… Nessun popolo conquistatore è riuscito ad avere ragione degli orgogliosi berberi, uomini liberi che fin dall’alba dei tempi percorrono le invisibili vie del deserto. Finché un nuovo nemico non è giunto dall’altra parte del mare. Un nemico subdolo e strisciante, chiamato progresso. Quel progresso che ha eretto una diga a monte per portare l’elettricità alle televisioni in città, e così facendo ha inaridito il Draa, il maggiore fiume marocchino, qui ridotto a un anonimo greto sassoso, condannando le comunità che vi si affacciavano a una lenta morte per spopolamento. Private di acqua le oasi muoiono, i dromedari non possono dissetarsi, le palme da dattero seccano e l’agricoltura di sussistenza che da sempre ha sfamato le popolazioni berbere collassa.
La mia permanenza al bivacco durerà solo dieci giorni, e poi ripartirò all’inseguimento di quel desiderio forse insaziabile di libertà e avventura che mi ha spinto quaggiù, ma Ahmed resterà qui, in questa terra arida dove riposano le sue radici e in cui ha piantato i semi del futuro. Perché la gente del deserto è troppo fiera per arrendersi, e resistendo anche a quest’ultimo invasore continuerà ad abitare gli infiniti spazi sahariani come ha fatto per migliaia di anni, attaccata alle sue storie e tradizioni antiche quanto l’uomo stesso.
FINE
Luca Mencarelli
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