Sgabello. Lavandino. Salviette.
Avevo tutto, cominciava un’altra giornata. Ti svegliava una pillola, che prontamente fingevo d’ingoiare portando indietro la testa, spingendola invece su per una narice.
Adesso veniva la parte più dolorosa. Cominciai a soffiare e sbuffare tenendo premuta la narice buona. -Cazzo!- Sangue misto a muco slavinarono giù dal naso prima che uscisse la dannata pasticca.
Quella routine stava costando cara al mio corpo già deturpato dalla maledizione della vecchiaia.
Ero ben lontano dal vedermi col cazzo raggrinzito, lo controllavo ogni sera, per esser sicuro che almeno quello non avesse subito drastici cambiamenti.
-Oh Jorghen. Ma guarda, anche in cesso stai!- Allampanato, occhi vitrei e pelle da carlino. Robbi era l’immagine della vecchiaia a cui dovevo sopravvivere, gli mancava solo la mannaia per esser la morte in zero carne e solo ossa.
Negli anni avevo imparato a controllare le mie emozioni per questo periodo ma, giuro, lui l’avrei ammazzato con le mie mani.
-Sì, e lo occupo solo io, ormai tu non hai più niente da cagare Robbi, fuori dai coglioni.-
-Le infermiere lo dicevano che sei scontroso, eh è la vecchiaia amico mio!-
Per forza d’abitudine il mio sguardo cercò lo strumento piu adatto per farlo sembrare un incidente.
Ma fù solo un attimo, e mi ricomposi.
-Caro Robbi, io non sono vecchio! E ci tengo alla tua salute, se vai in bagno da quanto magro sei, cagherai l’intestino per poi morire tra atroci dolori, lo capisci vero?-
-Io lo dicevo che sei un amco Jorghen!- Se ne andò all’apice della felicità, canticchiando il nostro nome come fossimo una coppietta. Mancava poco che cominciasse a saltellare come Heidi. Lo seguii con lo sguardo dalla porta, forse aveva davvero da cacare: una macchia marrone cominciava a delinearglisi sulla patta, ma era troppo contento per accorgesene.
Meglio così, nessuno in giro. Era ora di ripulire il macello che avevo fatto scaccolandomi. Se mi avessero beccato a non prender le pastiglie sarebbe stato tutto invano: lo sforzo di sopportare per mesi quel posto, quei vecchi malati che mi davano il voltastomaco.
Raggiunsi in fretta la sala per la colazione cercando di non farmi notare troppo. “Destra, sinistra e passo sbilenco. Destra , sinistra e passo sbilenco.” Una nenia per ricordarmi la camminata da avere, e una per non schizzar male vedendo tutta quella bava scendere dalle loro bocche slavate fino alle ciotole.
Sfido io che ci mettevano cosi tanto a mangiare sti cazzo di rinco’!
Ogni giorno la stessa minestra, di fatto e non.
Le giornate parevano non evolversi più, incitavano la monotonia del giorno seguente e di quello dopo ancora.
Nulla sopravviveva alla logorazione mentale di questo stallo, persino gli infermieri lasciavano trasparire segni di cedimento in taluni momenti: Alcuni si nascondevano all’uscita delle porte antincendio per fumarsi una sigaretta ogni cinque minuti, altri per una chiamata. Alcuni prendevano fin troppi caffè arrivando a fine giornata che si muovevano a scatti, come avessero la sindrome di tourette. Alcuni addirittura, avevano costruito un’insano rapporto con il loro partner di lavoro, portandolo avanti più spesso di quanto probabilmente avrebbero pinciato a casa.
Avevo le prove che incriminavano i protagonisti di ognuna di queste scene, c’era permesso infatti di tenere un diario, che io, tenevo ben stretto portandolo sempre con me. In realtà ero l’unico davvero sano di mente da mettere insieme una frase completa, questo però non lo sapevano i dottori. In quel posto mi credevano un normale vecchietto finito lì perchè sbavava più del cane dei figli, non sapevano quanto erano in errore ma gli lasciavo credere tutto quello che volevano pur di non essere disturbato, anche se, la fama già mi precedeva rovinandomi un po’ la piazza.
Dovevo fare attenzione a mantenere sempre le apparenze, non mancava molto al termine di quella tortura.
Dopo la colazione avevamo “l’ora d’aria” nel parco dove tiravo fuori il mio taccuino, pianificando il futuro, come ormai facevo da più di quarant’anni. Non si trattava solo di una buona abitudine ma di un bisogno impellente che avevo di tenere il tutto sotto controllo. La vita mi aveva sempre riservato talmente tante sorprese che davo ad ogni ora della mia giornata almeno una decina d’azioni diverse da poter svolgere, ognuna di queste si ramificavano come radici fascicolate nella mia testa, mostrandomi le possibili reazioni mie o delle persone incluse. Per molto, moltissimo tempo il mio taccuino non aveva mai sbagliato. Solamente una volta, solo una.
“Sia maledetta quella volta!Vaaah!”
Subito prima di pranzo avevamo la possibilità di scegliere se stare sulla stanza dei giochi o davanti la televisione. “Ma ci rendiamo conto?! La stanza dei giochi vaaah, manco fossimo all’asilo!” Nemmeno mio nipote giocava ancora con le costruzioni ad incastro, e aveva cinque anni!.
No , avevo il mio posto ad aspettarmi, ogni giorno, la stessa sedia. Un’abitudine che avevo preso in considerazione di cambiare vista la monotonia giornaliera a cui ero costretto. E, sì, per tutti a parte il sottoscritto la frase precedentemente detta non è un errore di valutazione letterale: Stare davanti la televisione veniva preso alla lettera, solamente io ero interessato a girare i canali, seguire la politica e il telegiornale. Gli altri osservavano apatici le immagine scorrere commentandole da atipici.
-…e ora passiamo alla notizia del giorno. Sono stati arrestati quattro membri dello storico Clan Zannardente, operativo nei quartieri di Milano. ..-
-Vaah!- Un’eslamazione troppo significativa per i due infermieri a guardia della sala. Dovevo calmarmi.
-…Secondo le dichiarazioni di uno di questi, fornite alla polizia con un interrogatorio durato diverse ore, suddetto clan conta molti piu settori in tutta Italia e all’estero..-
Ne ero sicuro fosse lui. Essendo arrestati di un certo peso non si erano fatti scrupoli, lasciandoli a volto scoperto mentre venivano ripresi, questo mi aveva permesso di riconoscere uno dei quattro e, potevo metterci la mano sul fuoco, quello era il vecchio braccio destro di mio figlio.
“Quel dannato coglione! Io glielo dicevo che doveva sbarazzarsene.”
Mio figlio si stava lasciando sfuggire le cose di mano. Era scritto sul mio taccuino che sarebbe successo, l’avevo previsto, fortuna che mancava poco e sarei tornato. Dovevo subito informare Facepalm, dovevo avere il resoconto delle cose successe in tutto quel tempo, era ora di rimettersi in marcia e riprendere le redini di cuoio sudato e sporche di sangue che tanto amavo.
-Tu..tu..tu. Tututu.- Niente.
Mà non rispondeva, zia non rispondeva, nemmeno Jorgi e questa lista di silenzi pareva allungarsi con l’andare delle chiamate cadute.
-Veeh!- Era incredibile, un tempo il mio numero sul loro display li avrebbe fatti saltare dalla sedia con la sicurezza che se non avessero risposto nell’immediato avrebbero avuto delle grane.
Odiavo le cose complicate, le attese se non portavano a nulla di buono, ma soprattutto, odiavo l’inutilità di persone come mio nipote: Jorgi, non potevo però fare a meno di sfruttarlo visto che l’entrata al manicomio era esclusa per i miei uomini di fiducia, per la mia ex moglie e per mio figlio. Mi toccava avere le visite con l’idiota che aveva contribuito a farmi finire in questo merdosissimo posto.
Quel giardino senz’erba pareva rispecchiare il mio stato d’animo. Arido.
Lo ero sempre stato certo, anche prima di arrivare all’ospizio, ero arido di cuore, ma non mi ero mai sentito così solo, la compagnia di certo non mi mancava, con tutte le prostitute che facevano la fila ogni sera alla mia porta per un verdone in più.
-Viih!- Quanto mi mancava quella libertà. Alzai brache e mutande, eh sì, con la mancanza d’esercizio pareva che l’attrezzo arruginisse.
-Aah cazzo!-
Sbattei violentemente i pugni sul’isolata panchina del giardino, senza ricordare quanto facessero male le nocche. “Fanculo, tutta colpa della droga!”
Io non mi facevo, non mi sarei mai fatto e non avrei mai voluto vederla nella mia vita, odiavo persino la neve per la somiglianza. Sapevo che con il mio giro d’affari in tutto il mondo la Biancaneve avrebbe solo portato più controlli dagli sbirri e quindi più rischi. Sì avrei guadagnato molto di più e più in fretta certo, ma ero un tipo paziente, mai pizzicato nemmeno per una chewiing gam e con la mia perseveranza avevo costruito un impero sicuro.
E quando ci ripenso… Arrivò l’idiota: Cricco, l’attuale secondo di mio figlio, diceva che aveva un grosso affare per le mani, mio figlio , che non aveva mai ascoltato il mio consiglio di guardarsi più dagli amici che dai nemici gli diede retta, infognando velocemente quasi la totalità dell’Impero. Dovetti vendere proprietà e riscuotere favori da mezzo mondo e nonostante ciò dovetti impegnare il bene più prezioso: me stesso. Impegnare non é il termine esatto ma la mia finta perdita di ragione avrebbe permesso a quel mare di merda di sgonfiarsi. Era questo il piano, per tornare poi a casa dimostrandomi alle autorità pulito ancora una volta, mio figlio sarebbe stato catturato e miei beni sarebbero rimasti intaccati perchè niente era a suo nome, salvando così i miei sforzi di una vita dall’oblio.
Non mi sentivo un cattivo padre per quella decisione, dipendeva tutto da una semplice regola del taccuino: non ammettevo errori soprattutto dal mio genero.
A pensarci bene però, ancora non capivo come avesse potuto fallire il piano. Il diario non lo prevedeva, tra i pregiudicati appena arrestati doveva esserci mio figlio, invece…
Il mio sguardo si spostò sul vecchio edificio che mi ospitava. “Vaah!, mi sarei dovuto trattenere più a lungo. Veeh!”
“Vaah” Stavo passando una settimana infernale, ad ogni ora del giorno chiamavo e nessuno rispondeva. Potevo solamente sperare che non fossero stati incarcerati anche tutti i miei contatti. Cosa alquanto improbabile, vista l’assoluta innocenza di mia madre.
Tutto prendeva una piega così surreale da mandarmi in pappa il cervello, e il peggio, era che il mio quotidiano Relax di enigmistica continuava ad arrivarmi. Chi me lo mandava? Perchè non rispondeva alle mie chiamate se poteva portarmi un giornale?!
Pieno di frustrazione stavo cominciando a dare di matto, lasciandomi trasportare dall’emozione come non era mia abitudine. Strappai violentemente le prime pagine, accartocciandole, riducendole a brandelli finchè non mi saltò all’occhio un particolare. Avevo sfogliato almeno una decina di volte quel “coso” ma , solo in quel momento mi accorsi del piccolo rebus sull’angolo di una pagina. C’era solo una lettera scribacchiata malamente, non era completato. Come e chi s’era permesso di toccare il mio giornalino porca…! Non ero solitamente vezzo ad inveire, era la mia calma glaciale e studiata a incutere paura non la mia bocca larga. Non so per quanto rimasi a fissare incazzato e impotente quella lettera, e mi scossi solo nel momento in cui capii ciò che voleva dirmi.
-Era ora, Cazzo!!.- Guardai l’orologio. Appena in tempo, corsi a più non posso verso la sala pranzo. Cosa effettivamente strana per me, visto il vomito che provavo solo a vedere cosa mi mettevano nel piatto, una stranezza che notarono tutti mentre li scansavo uno a uno per arrivare al mio posto in velocità.
I piatti erano lì ad aspettarci, come ogni giorno, come ad ogni pranzo. Un pezzetto di carne macinata, (erano in molti a non avere più i denti) del purè e tanta verdura, dalle carote alle zucchine, al sedano. Ce la misi tutta per frenare la mia impazienza, avevo già dato troppo nell’occhio e dovevo esser cauto, o la mia fuga sarebbe arrivata al suo epilogo ancor prima di cominciare.
Il rebus era chiaro, e anche il motivo di quella lettera. Sì, il rebus era un indizio, veniva raffigurata una donna che guardava estasiata un piatto colmo di cibo. Cibo vero, e quello non era il mio caso. Sondai con lo sguardo tutto il pasto,doveva essere nascosta all’interno del purè. Quando tutti ebbero preso posto, e le posate cominciarono a tintinnare, presi anche io il mio cucchiaio tremante.
No, non era il parkinson a farmi tremare, no, non ero lì per problemi cerebrali di alcun genere. Ma la mano mi prudeva. Presto, al posto del cucchiaio, avrei stretto ancora il calcio della mia pistola.
Quando la toccai col cucchiaio il mio cuore saltò un battito, ormai tutti presi dal pranzo, non notarono la mia ricerca a mano nel purè.
Eccola, la chiave. La chiave del cancello d’entrata, che al momento giusto della serata mi avrebbe permesso di uscire indisturbato. Dopo una certa ora infatti, anche Henry, la guardia del cancello andava a dormire. In fondo, in un manicomio cosa ci poteva essere da rubare? Era l’unica via di fuga essendo l’edificio circondato da una rete e una siepe alte 5 metri, meglio così, non avevo intenzione di fare arrampicata.
Le ventidue si fecero attendere. Quelle ore passate a sognare la nottata in uno dei miei appartamenti, non fecero altro che allontanare la trepidante fuga, era come ascoltare il raspare delle unghie su una lavagna pregandole di smetter presto.
Preciso come un orologio svizzero, alle dieci ero pronto e, come un giovinotto che esce clandestinamente di casa, scavalcai la finestra della camera il più silenziosamente possibile. Percorsi il giardino arrivando al selciato ch’era la stradina d’ingresso. Con l’oscurità che mi avvolgeva raggiunsi quatto quatto il cancello, e grazie alla luna, avvicinai la chiave alla serratura.
Benedissi quel raggio di luna che si specchiava sulla toppa, ma maledissi la mano tremante che non riusciva a infilare la chiave.
-Veeh! Porco giuda che cazz..!!- Sembrava un incubo, ma era reale. Più spingevo la chiave nella serratura e più questa pareva rompersi, squagliarsi tra le mie mani.
-Ehi! Ehi tu!- Cazzo , come avevo fatto a dimenticare l’ultimo giro di ronda che faceva Henry?! Per un attimo incrociammo gli sguardi, al che lui cominciò a correre come un forsennato verso di me, e io, sentendomi sempre più il topo in trappola continuavo a sbattere l’ormai inesistente chiave sulla toppa. Poi la presi a pedate, infine, col fiato di Henry quasi addosso, cominciai a scuoterla violentemente, provocando così l’epilogo che non avrei mai voluto. Persi l’equilibrio a causa del selciato umido sbattendo di cattiveria la testa sulle spranghe del cancello. E tutto fu buio.
Mi svegliò il trambusto che rimbombava ovunque nella mia testa, assieme a una voce che urlava.
-Papà, papà!!- Un giovane era chino su di me, con le lacrime al volto.
Chi era quel ragazzo, cosa voleva?
-Papà ma cosa hai combinato, mi hanno chiamato dal…. il medico mi ha contattato dicendomi che ti sei preso una bella botta cercando di scappare. Devi smetterla, lo sai che lì starai bene!-
-Vaaah, veeeh !!! VAAAAAH, VEH!- Cominciavo a non capirci più nulla. chi era quel ragazzo? Mi metteva angoscia. Perchè mi chiamava papà? Perchè non ero riuscito a scappare? Perchè la chiave mi si era squagliata in mano!?.
Qualche minuto dopo, fuori dalla stanza…
– Mi spiace signor Walter, suo padre sta peggiorando come può vedere.-
– Ma dottore, com’è possibile, dicevate che in quella casa di cura si sarebbe sentito meglio. Invece non mi riconosce nemmeno più!-
– Si calmi, la prego. Evidentemente non ha reagito come speravamo. Ha cominciato a costruirsi invece un mondo tutto suo.- Walter prese dal medico il sacchetto di carta, conteneva gli unici effetti personali di suo padre?
-Queste cose erano nella sua tasca quando è caduto, questo invece l’aveva in mano-
Il medico lasciò il ragazzo, interdetto, a guardare gli oggetti che alimentavano la pazzia di suo padre: Una saponetta era il telefono cellulare, una gamba di sedano ormai ridotta a brandelli era la sua chiave.
Una realtà ben diversa la sua.
Walter era un veterinario, e suo padre, vedovo da quasi dieci anni, era un poliziotto in pensione…malato di Alzheimer.
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